Per il nostro breve viaggio nel mondo del connettoma, ripartiamo dal pensiero della neuroscienziata Kay M. Tye, già citato nel precedente articolo e riassumibile in poche parole: quella che chiamiamo mente è una funzione del cervello e le malattie della mente sono malattie del cervello.
Parla l'esperto
Nel labirinto del cervello (parte seconda): connettoma e nuove strategie terapeutiche
28 Luglio 2022 | a cura di Alessandro Rotondo Rossella Li Vigni
"“Il vostro cervello crea tutte le sfumature della vostra mente. Non è assurdo che le malattie fisiche e quelle mentali vengano trattate in modo distinto se sappiamo che il pensiero è generato dal cervello, un organo fisico? Non è forse la mente parte del cervello e il cervello un organo come gli altri, che va studiato nella sua anatomia e nelle sue funzioni come tutti gli altri organi?” "
(Kay M. Tye: What investigating neural pathways can reveal about mental health. TED’s talk, novembre 2019)
Filosofi, religiosi, scienziati, intellettuali, si sono posti fin dai tempi di Platone questa domanda: qual è il rapporto fra tutto ciò che è fisico – immediatamente visibile e riscontrabile – e ciò che non lo è, come il pensiero e quella che viene definita coscienza? La scienza non ha ancora trovato risposte definitive, ma, grazie agli enormi progressi delle neuroscienze, ci permette oggi di indagare con strumenti impensabili fino a 20 anni fa la struttura e le connessioni funzionali del cervello con lo scopo ultimo di individuare le basi neurofisiologiche dei processi mentali.
Ancora oggi le malattie mentali vengono classificate in base ai sintomi (depressione, ansia, psicosi), senza alcun riferimento a quali siano le alterazioni cerebrali che le causano, multifattoriali e ancora poco conosciute. Questo approccio trascura la complessità delle cause genetiche, molecolari, ambientali e, soprattutto, le alterazioni dei circuiti cerebrali che sottendono i disturbi mentali rappresentando in tal modo un ostacolo allo sviluppo di nuovi trattamenti più efficaci.
Gli strumenti terapeutici più utilizzati al giorno d’oggi nei disturbi mentali sono ancora gli psicofarmaci.
Dietro il termine “psicofarmaci” si cela una vasta gamma di farmaci che va dai blandi ansiolitici, agli antidepressivi di ultima generazione, agli antipsicotici.
Esiste una diversificazione nell’uso di tali farmaci in considerazione delle singole patologie diagnosticate, ma sostanzialmente i farmaci che rientrano in ciascuna delle categorie codificate e riconosciute, presentano meccanismi d’azione simili. Con poche eccezioni, funzionano prevalentemente secondo principi identificati, a volte fortuitamente, oltre 70 anni fa.
Negli ultimi decenni ci si è in qualche modo accontentati dei risultati raggiunti con le ultime generazioni di questi farmaci, che hanno effetti collaterali ridotti rispetto a quelli del passato, per cui, i “nuovi” farmaci che vengono progressivamente commercializzati sono, nella maggior parte dei casi, varianti di composti già esistenti. Nella quasi totalità, i “nuovi” antidepressivi agiscono, come quelli sintetizzati negli anni 50-60 dello scorso secolo, prevalentemente su alcuni neurotrasmettitori (serotonina, dopamina, noradrenalina) per modularne il segnale, cioè per regolare l’intensità e la frequenza, proprio come si fa con il volume e la stazione di una radio.
Talvolta è necessario alzare il volume, altre volte abbassarlo, altre ancora cambiare canale radiofonico: lo psichiatra decide come variarli in base alla patologia che deve curare. Nonostante i loro limiti, questi farmaci si sono rivelati efficaci e sicuri nel trattamento di molte patologie nervose e rappresentano tuttora un pilastro imprescindibile della farmacopea dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nonostante un consistente numero di pazienti sia resistente alle terapie attualmente disponibili.
Con l’inizio del nuovo secolo, la ricerca neuroscientifica ha ricevuto un grande impulso e sta procedendo molto più speditamente di quella del secolo scorso dominata dai trattamenti farmacologici sintomatici ancora oggi utilizzati. La connettomica e le tecnologie applicate allo studio del cervello, stanno percorrendo, infatti, strade mai battute prima, tanto da rendere quasi obsoleto l’approccio terapeutico farmacologico, così come lo abbiamo inteso sino ad oggi.
Cerchiamo di seguire alcuni di questi percorsi e di comprendere in che modo anche i farmaci potranno cambiare.
L’approccio “circuitale” può consentire lo sviluppo di farmaci veramente innovativi e più mirati.
Per cominciare, ci si chiede come si possano trasferire le nuove conoscenze ricavate da modelli cellulari e animali per lo studio del cervello al trattamento clinico dei disturbi neuropsichiatrici.
Immaginare una futura terapia per malattie neuropsichiatriche croniche e recidivanti in cui i pazienti con ansia, depressione o dipendenza possano ricevere un trattamento indolore in pochi giorni e guarire definitivamente, senza effetti collaterali indesiderati, potrebbe sembrare fantascienza.
La medicina deve seguire la scienza e ci sono buone ragioni per essere cauti. La comprensione scientifica dovrebbe precedere il trattamento medico delle malattie del cervello. In termini prospettici, però, la ricerca neuroscientifica ha già iniziato il passaggio da una farmacologia “sintomatica” ad una che tenga conto delle modalità con cui i circuiti cerebrali danno origine al comportamento.
I progressi che abbiamo già descritto, relativi al connettoma e alla conoscenza dei circuiti cerebrali responsabili del comportamento umano e delle sue alterazioni, hanno infatti lo scopo di arrivare a una farmacologia mirata, cioè a “costruire” diciamo così, mattone dopo mattone, un edificio che abbia i mattoni giusti, quelli migliori, per la solidità e la stabilità delle fondamenta.
Un approccio promettente è dato dagli studi sull’uomo, ancora in fase iniziale, in cui è possibile sfruttare nuove opportunità nelle neuroscienze applicate, così da migliorare la previsione di un eventuale successo nello sviluppo dei farmaci. Ad esempio, la tecnica del neuroimaging, che consente, lo ricordiamo, di indagare l’attività delle varie aree cerebrali, può rivelare se e in che misura nuove terapie possono modificare la connettività disturbata nei soggetti sani rispetto a quelli malati.
La sfida di trovare trattamenti per disturbi neuro-comportamentali complessi può essere accelerata anche attraverso i fantastici progressi dell’intelligenza artificiale, dalla ricerca di specifici fattori di rischio e delle cause che sottostanno ai disturbi dei circuiti cerebrali, basandosi su studi genetici e ambientali su larga scala.
Questo corpo di conoscenze può permettere di mappare le alterazioni del comportamento, dell’umore e della cognizione. Il risultato di un tale programma di ricerca è fornire informazioni sugli aspetti patologici rilevanti per la diagnosi e il trattamento della disabilità tramite l’identificazione di indicatori biologici, chiamati biomarcatori, come una sequenza di DNA o una proteina, correlati con una determinata malattia o con la risposta a un trattamento specifico. È questo lo scopo della medicina di precisione: i biomarcatori permettono di mettere in luce le differenze individuali di parametri genetici, ambientali e biochimici alla base dei disturbi mentali, finora indagati solo in base ai sintomi, fornendo la base per terapie mirate e personalizzate tramite l’individuazione del marcatore bersaglio da colpire con il farmaco.
Il futuro è già iniziato: nuovi approcci alla terapia dei disturbi mentali
Per i pazienti resistenti ai trattamenti, la conoscenza delle strutture cerebrali coinvolte nella genesi del disturbo, permette già ora l’uso di una tecnica innovativa ma invasiva, quindi da utilizzare solo in casi gravi e resistenti ai trattamenti farmacologici, chiamata Deep Brain Stimulation (DBS). La stimolazione cerebrale profonda è una tecnica neurochirurgica basata sull’impianto di elettrodi che inviano, tramite un pace-maker simile a quello cardiaco, un segnale elettrico in aree specifiche del cervello. In questo modo si può “modulare” l’attività del cervello, cioè produrre attivazione e disattivazione delle reti cerebrali, rispetto a determinati compiti o “esercizi” cognitivi ed emotivi.
La DBS è indicata, e ha prodotto buoni risultati, in larga parte nella terapia dei disturbi del movimento, come il morbo di Parkinson, resistenti al trattamento farmacologico.
Negli ultimi anni, però, è stata utilizzata anche nel trattamento della depressione grave, del disturbo ossessivo compulsivo e della sindrome di Tourette (patologia in cui i pazienti manifestano tic motori e vocali ripetitivi associati spesso a idee ossessive), resistenti ai trattamenti farmacologici disponibili. Nel caso del disturbo ossessivo compulsivo e della sindrome di Tourette, i risultati preliminari sono stati incoraggianti, sia a livello di diminuzione dei sintomi, che del miglioramento della qualità della vita. Meno soddisfacenti i risultati sulla depressione. Le implicazioni etiche di questo trattamento, in quanto invasivo e non sempre efficace, inducono per il momento cautela, e ne suggeriscono l’impiego solo su scala ridotta. Saranno quindi necessari ulteriori studi e test clinici approfonditi prima di considerare la DBS come terapia valida per le malattie psichiatriche.
Stimolazione magnetica transcranica
Al di là della DBS, già da molti anni si sta lavorando alla ricerca di metodi sicuri e non invasivi in grado di modulare l’attività elettrica del cervello e la funzionalità di specifiche aree cerebrali coinvolte nella patogenesi di vari disturbi mentali. Fra le varie tecniche, la stimolazione magnetica transcranica (TMS), una manipolazione non invasiva e transitoria dell’attività neurale, è quella che sta mostrando i risultati più promettenti, anche se ancora preliminari, nel modulare la plasticità cerebrale e migliorare comportamenti patologici nei casi di ansia, depressione, ossessioni, dipendenza da droghe.
La TMS prevede l’invio di uno stimolo elettrico in aree superficiali specifiche del cervello attraverso onde elettromagnetiche generate da un dispositivo appoggiato al cuoio capelluto, senza la necessità di introdurre elettrodi nella scatola cranica come avviene nella DBS. Come abbiamo già detto, le aree cerebrali prescelte sono quelle che gli studi neuroscientifici hanno associato a disturbi mentali come la depressione, il disturbo ossessivo-compulsivo, i disturbi da uso di sostanze e il gioco d’azzardo, nonché su sintomi specifici, come, ad esempio, le allucinazioni o il dolore. Purtroppo, nonostante i risultati incoraggianti, anche la TMS richiede ancora ulteriori miglioramenti, che stanno però procedendo a grande velocità, per garantire un livello significativo di efficacia nella modulazione dell’attività neuronale.
Neurofeedback
Un’altra tecnica non invasiva e molto promettente è il neurofeedback, che merita un discorso a parte per la sua particolarità. Per spiegare il neurofeedback dobbiamo tornare al concetto di plasticità del cervello, cioè la particolare proprietà del sistema nervoso di modificare sia la propria struttura che le proprie funzioni, grazie agli stimoli ricevuti. Gli stessi circuiti neuronali hanno questa capacità di adattarsi e modificarsi in base a stimoli interni o esterni.
Il neurofeedback, che viene effettuato attraverso avanzate e specifiche tecniche di elettroencefalografia o risonanza magnetica funzionale, può essere considerato un vero e proprio allenamento del cervello che risponde ad appropriati segnali ed esercizi cognitivi. Infatti, come stiamo comprendendo, l’attività cerebrale può essere modificata, come quella di qualsiasi altra parte del corpo. Se corriamo si irrobustiscono le nostre gambe, se facciamo esercizi aerobici, il cuore ne ha benefici e così via. Il neurofeedback agisce su questa capacità dell’organo cervello di cambiare nel tempo, in alcuni casi anche senza l’aiuto dei farmaci. Nel giro di qualche mese, con un lavoro di 2 o 3 settimane è possibile ottenere cambiamenti duraturi nel nostro modo di pensare, sentire, agire, provocando l’attivazione di determinati circuiti cerebrali e inducendo la creazione di nuove sinapsi. In sintesi, il nostro cervello, durante le sedute di feedback, è come se fosse di fronte ad uno specchio, può osservare e correggere eventuali errori mentre svolge il proprio compito, ed elabora e restituisce dati e informazioni in tempi brevissimi. Questo nuovo approccio alle disfunzioni cerebrali può far sì che il cervello si autoregoli, scardinando abitudini sbagliate e riposizionandosi in maniera più stabile. Importante è sapere poi, che per ottenere questo risultato, il feedback non agisce sulla mente pensante ma si basa sulla velocità della risposta cerebrale ai vari stimoli, proprio per evitare che l’eccesso di riflessione possa bloccare il processo e vanificare l’apprendimento, che deve essere quindi di tipo quasi automatico.
Dal suo sviluppo iniziale nel 2003, un numero crescente di prove e di studi hanno indicato che il neurofeedback è effettivamente uno strumento promettente per migliorare le disfunzioni cerebrali e per aiutare il cervello ad autoregolarsi. Si sta mostrando efficace nel trattamento del disturbo del deficit di attenzione e iperattività, tanto da essere incluso come trattamento consigliato dai pediatri americani nei disturbi di aggressività e impulsività, come i comportamenti antisociali e criminali, oltre che in molte altre patologie, dall’ansia alla fibromialgia, dalla depressione alle cefalee.
Ovviamente, anche il neurofeedback, come la TMS, richiede studi più approfonditi per migliorarne l’efficienza e soprattutto l’efficacia nel tempo dopo la fine della terapia, al momento non sempre duratura. Tuttavia, questo metodo offre l’opportunità di approfondire la nostra comprensione del funzionamento cerebrale e di mostrare quanto stretta sia la relazione fra corpo e mente.
Scenari e implicazioni. Non è tutto oro quello che luccica
Modificare il comportamento umano attraverso tutti gli strumenti di cui abbiamo parlato porta, però, a interrogativi fondamentali. Se i farmaci e le nuove tecnologie, coadiuvati dalla connettomica, permettono di curare nell’immediato e a lungo termine un paziente neurologico e psichiatrico, non bisognerebbe considerare le implicazioni etiche dell’uso di tali procedure? Come dobbiamo porci di fronte a problemi di sicurezza e privacy? E la connettomica, con il mare magnum di dati che può mettere a disposizione della scienza come può evitare di diffondere o rendere pericoloso l’uso di questi dati?
Sempre più spesso in neuropsichiatria usiamo i termini “manipolazione”, “modulazione”, “riprogrammazione” dei circuiti cerebrali per spiegare il funzionamento delle nuove tecnologie e del connettoma. Dobbiamo averne paura? La risposta è sicuramente “no!”, ma non può neanche essere superficiale, perché il nostro cervello è sì assimilabile ad un computer, a una macchina meravigliosa, ma un essere umano è molto più di questo. La complessità di un individuo non è infatti sintetizzabile in un algoritmo o nell’elica del proprio DNA. Ognuno di noi è il prodotto di molti fattori interni ed esterni, di influssi ambientali e culturali, di abitudini radicate e molto altro, e di ciò bisogna tenere conto. Ma la moderna psichiatria, come tutte le altre branche della medicina, dovrà sempre più confrontarsi con i progressi dell’intelligenza artificiale. In un futuro prossimo, ad esempio, conviveremo con microchip di ultima generazione, che avranno infinite applicazioni, perfino quella di tenere sotto controllo la nostra pressione sanguigna o farci sapere se un frutto è andato a male.
Quindi è inevitabile valutare le implicazioni etiche del connettoma in relazione al rapido sviluppo delle tecnologie avanzate che abbiamo sintetizzato sin qui. Tecnologie che lavorano e agiscono sul nostro cervello.
Come si sa, se le attività dello scienziato e del ricercatore sono spesso neutre, finalizzate alla ricerca in sé e alla scoperta di qualcosa, l’uso che poi si fa di queste scoperte, investe invece la politica e coloro i quali prendono decisioni, con ricadute su tutta la società. Ciò vale anche per le conoscenze sul cervello. Ci si comincia a chiedere infatti se questa correlazione fra i diversi stati e processi mentali con l’attività neuronale in aree cerebrali definite, potrebbe un giorno trovare usi estranei alla medicina o alla biologia, per esempio per raccogliere informazioni normalmente vietate dalla legge.
Barry Steinhardt, direttore dell’American Civil Liberties Union’s Technology and Liberty Project, ha dichiarato: “Leggeranno i pensieri delle persone… Inoltre, poca attenzione è stata prestata al potenziale uso improprio della Risonanza magnetica funzionale e all’impatto devastante che avrebbe sulle nostre libertà civili”. Ovviamente questa è una visione un po’ esagerata delle cose, ma in un’epoca di circolazione enorme di dati e di giganti del web, che di questi dati sono i principali detentori, il rischio esiste, soprattutto riguardo alla riservatezza delle informazioni personali e del modo in cui sono raccolte tramite le tecnologie di indagine e conservate nei data base. Questi temi riguardano le regole etiche e le garanzie legali e sociali, l’etica professionale e le tutele democratiche della libertà individuale e della privacy.
Allo stesso modo, ad esempio, le cosiddette “macchine della verità” vengono sviluppate sulla base della capacità di distinguere le aree di attività cerebrale che corrispondono alla menzogna deliberata, dalle aree che corrispondono invece alla verità. Queste reazioni sono visibili poiché nel dire una bugia o la verità si attivano aree diverse del cervello. Ma le bugie non rappresentano una categoria omogenea di comportamento. C’è inganno finalizzato al guadagno personale oppure per salvare i sentimenti di un’altra persona, bugie che diciamo a noi stessi e bugie che intendono ingannare gli altri, o bugie assimilabili ad omissione di informazioni. Ognuna di queste tipologie può avere differenti correlati neurali, incluso il grado di reiterazione o di emozione associati alle bugie. È comprensibile quindi il motivo per cui i tentativi di applicare queste tecniche nei casi legali suscitino grandi controversie. Le conoscenze e le valutazioni del funzionamento del cervello, da parte di scienziati e medici, si applicano infatti in miriadi di situazioni, dalla decisione se staccare o meno le macchine ad un paziente in coma irreversibile, alla valutazione delle capacità di intendere e di volere in un tribunale penale o civile. Quindi quando si arriverà a spiegare, in modo inequivocabile, perché e come mente e cervello sono la stessa cosa, e a fare accettare questa verità, questo sarà un grande passo avanti, ma bisognerà affrontare e risolvere inevitabili nuovi problemi.
Quali prospettive dunque?
In conclusione, la rapida crescita dei progetti di connettoma e degli studi correlati, suggerisce che il connettoma ha già dimostrato di essere una strada percorribile per le neuroscienze cognitive. È importante sottolineare che il connettoma è molto più di un grande set di dati: è un mezzo per combinare vari aspetti del funzionamento del cervello, dalla singola cellula all’architettura neurale su larga scala, sia dal punto di vista strutturale e fisiologico, che da quello funzionale. Un insieme quindi di grande complessità, che si pone molti obiettivi a breve e lungo termine. In primis quello di poter mettere ogni singolo circuito neurale in relazione con gli altri e rendere possibile la “riprogrammazione neuronale” al fine di cambiare la diagnosi sulla base dell’attivazione di aree cerebrali. Poi, come abbiamo visto, l’obiettivo di sollecitare il superamento della mentalità legata alla farmacologia tradizionale o a vecchie tecniche di indagine cerebrale, ormai inadeguate a dare risposte efficaci.
Guardando al futuro, nonostante le numerose sfide e attuali limitazioni, il connettoma cambierà il modo in cui vediamo e studiamo il cervello. Alcuni di questi cambiamenti sono già iniziati. Soprattutto, l’evidenza che la mente è parte del sistema cervello, che mente e cervello sono un unicum, che il pensiero e la coscienza sono prodotti dal cervello, sono il cervello.
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